Skip to content Skip to footer

Meloni non capisce che Trump non ha lasciato altra scelta all’UE se non imporre tariffe reciproche

Nell’intervista di oggi al Financial Times, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha camuffato il suo trumpismo latente provando a mantenersi equidistante tra Europa e Stati Uniti. Sarebbe “infantile”, secondo lei, scegliere tra i due continenti. Ha ragione, anzi: avrebbe ragione se l’Italia non facesse parte dell’Unione Europea. Ma, visto che ne fa parte, il dilemma non dovrebbe neppure porsi. Non scegliere equivale a porsi al di fuori dell’Europa, scegliendo di fatto gli Stati Uniti di Trump. L’obiettivo politico della nuova amministrazione conservatrice a stelle e strisce consiste proprio nel dividere gli stati europei, esercitando un potere negoziale bilaterale con ciascuno di essi. Come se l’Europa non esistesse.

Meloni sembra accettare questa strategia, nella speranza (illusione) di poter agire da “pontiera” nell’interesse anche dell’Europa. È un equilibrismo che non potrà durare a lungo, soprattutto perché i dazi imposti da Trump colpiranno duramente i principali Paesi europei esportatori tra cui il nostro. Intere filiere, dal vino all’automotive, subiranno pesanti contraccolpi. O Meloni riuscirà a negoziare nel brevissimo termine condizioni meno dannose per la nostra economia (ma anche per l’Europa intera, la cui missione storica secondo Trump sarebbe quella di “fottere” gli Stati Uniti), oppure l’unico comportamento infantile che le rimarrà sarà quello di piangere amaramente per gli effetti della guerra commerciale appena iniziata. In entrambi i casi, l’Italia non sarà trattata più favorevolmente di Francia e Germania. La “non scelta” resterà un argomento retorico buono solo per le interviste, non per la tassazione alla dogana. E neppure per le ancor più preoccupanti evoluzioni della politica estera, col pericolo Putin sempre più concreto alla frontiera est dell’Europa, mentre Trump prepara i pop corn.

Un altro passaggio molto discutibile dell’intervista di Meloni riguarda il vicepresidente J. D. Vance. La nostra premier dice di essere d’accordo con lui, quando questi a Monaco ha accusato l’Europa di avere rinnegato la libertà di espressione. È il solito cavallo di battaglia delle nuove destre di tutto il mondo, l’ideologia woke imposta da una cricca di burocrati e di politici al caviale contro l’autenticismo tradizionalista dei popoli. Una narrazione senza dubbio vincente in questo momento storico, che però trascura di considerare come un’ideologia parallela (e ben più pericolosa) l’intolleranza e l’avversione al dissenso proprie di chi si erge a paladino del free speech. Trump non ha mai fatto mistero delle sue pulsioni illiberali proprio in materia di idee, a partire dagli attacchi alla libera stampa. E poi: Meloni non ha nulla da dire sulla repressione in corso negli Stati Uniti verso intellettuali, ricercatori, università cosiddette liberal, una “notte dei lunghi coltelli” senza sangue scatenata dal più oscurantista dei riflussi conservatori, in cui attivisti stranieri ma regolari possono venire arrestati e deportati, con la scusa della sicurezza (signora mia), anche solo per avere firmato un appello per Gaza? Se anche l’ideologia woke fosse realmente deprecabile, non dovrebbe esserlo ancor di più l’ideologia anti-woke che la vuole censurare e punire?

Anche qui, Meloni sceglie di stare contro l’Europa, praticando il più infantile dei comportamenti: il vittimismo di cui è maestra. E non suona affatto convincente che provi a spiegare la sua posizione (e quella di Vance) puntando l’indice contro le solite “classi dirigenti”, che sarebbero una sorta di Spectre culturale. Se certe idee non conservatrici si sono diffuse in Europa e in America, non è colpa di oscuri complotti contro il popolo, ma merito (oh sì) di quella libertà di espressione e di parola che in Occidente veniva garantita, tra inevitabili alti e bassi, fino a soli tre mesi fa: e che oggi è invece minacciata a morte dalla più potente classe dirigente al mondo, la Casa Bianca.

Meloni non vuole scegliere tra Europa e Stati Uniti, ma così facendo sceglie l’ignavia (e l’opportunismo). Magari potrà trarre un vantaggio per sé e il suo governo in ottica meramente sondaggistica, ma sui tavoli che contano – incluso quello con Washington – non ne ricaverà la minima riconoscenza. Né per lei né soprattutto per l’Italia. Trump non sarà un avversario, ma di sicuro non è più un alleato. Ed è già questa una enormità senza precedenti. Questa è l’unica cosa che Meloni deve capire, al di là della facili interviste.